E così Roccabianca esiste ancora. Il teatro di quella sera di luglio al gusto di formaggio, dopo le notti sul poggiolo di Borgonovo, non è poi cambiato di molto. Oppure semplicemente non c’è più. Ma no: il cartello blu con la scritta bianca è lì ancora fra le gambe di mais e il frumento. Il campanile vien su ancora dal Po come quella sera dall’aria fresca. Gli alberi si danno ancora la mano nel filare ombroso, portandoti dentro, nell’avamposto della bassa fidentina.
Di fronte all’Agip hanno costruito una rotonda. L’asfalto è ancora adrenalinico. Là in fondo, insomma, Roccabianca c’è ancora. Si è fatta trovare. Dopo Castelnuovo, il gelato, quella bella piazzetta, i mattoni, i pomodori, i casali e i cartelli con il profumo del formaggio che sa di vacca.
Ma il cielo è sempre più blu…
Non c’è più il bar. Lì, in borgo Bixio, dove il campanile ha le radici ingramignate nella terra d’argine, è stato sbaraccato tutto. E’ stato sgusciato il bar, con le sue intimità, il suo caldo legno, le sue nebbie e le bibite paesane. Con il suo vino sincero e il suo dolce culatello. Con la signora dal grembiule sporco, i vecchi intarsiati con la erre di queste terre, e il te caldo da portar via. Le foto in bianco e nero, le tovaglie unte, il caffé all’alba e le brioche che insomma non sono buone ma che bello fermarsi a mangiarle con un amico.
«Qui finisce tutto a Roccabianca», dice un vecchio di Benevento, trapiantato sulla destra del Po, dove la piana cremonese invade il contado di Fidenza. «In verità un bar c’è ancora». Sì ma è diverso. E’ in piazza. Ci sono i giovani truzzi con le Seat nere. E’ spento. E qualche cinquantenne con la pancia e l’anello d’oro finto, che parlano di come andare in pensione. Roccabianca, quella vera, è anche questo. Gli archi però sono epici, bassaioli. Qualche canottiera bianca occhieggia ancora dietro le finestre, poche. Come ogni paese di bassa, questi sogno gli anni sventrati; via la storia, ecco le immobiliari. Anche la trattoria ha chiuso i battenti, per non riaprirli forse più. Ma il cielo è sempre più blu. Non tutto va via con un piano regolatore, con un mappale, con una bastarda delibera. I borghi bassaioli sanno essere cocciuti. E quel mattone sberciato, che sbriciola argilla bruna, dove cresce un filo d’erba secca, ti colpisce ancora e ti porta ruzzolando indietro.
Lì però la strada, l’incrocio, è ancora quello che ho disegnato nelle budella. La liberazione di andare ovunque, comunque: a volte mi torna, quella sensazione (per converso, s’intende) di parcheggiare la 206 ricoperta di fango padano lì tra la statua, la rocca, il bar sport e la vigilessa con il cappello bianco e lo stemma giallo e blu. Diciotto anni. Estate 2003, 26 luglio. L’aria, la musica, il vento negli occhi, sull’argine. Far benzina con dieci euro consunti e buttarsi su quell’argine verso il ponte, col cielo rosato, la sera, la mattina dopo. La poesia della tenebra, la paura del lupo, il gelo in macchina. E poi il rally nel bosco, dove ho preso la patente. E sempre allegri bisogna stare. Liberi di tutto, da tutto, liberi di far quel che ci piace, senza limiti. Un atlante del 1981. Sentire il motore, schiacciare l’acceleratore, vedere la terra sui finestrini, scrutare una cartina e arrivare fino in fondo. Con la bici avevo iniziato a sedici anni (a quattro?), un motorino non l’ho mai avuto, ma ora con la macchina, con la 206 è così, speciale. I Blink, quella curva venuta alla fine, era come se fossimo lì da sempre. Dovevamo andare a Venezia. Le puce della pioggia sul vialone; era un estero, a suo modo, Roccabianca. Puciarsi poi scrivere. E’ lì che è venuta su questa idea. Che è risorta dal 1989.
Cazzo che bello. E scendere a piedi nudi, la pelle sull’asfalto, le ciabatte disperse, i pantaloncini gialli, l’umido della notte sulla pelle, la cedrata calda e sgasata, la sabbia nei capelli, il formaggio nelle corde, e toccare con mano quel fango a ventaglio e sentire caldo e bruciaticchio di gomma. E il cofano sempre più blu. Sono le sei e venti del mattino, o giù di lì.
Non ho mai scritto di Roccabianca a caldo. Non ne ho mai fermato il sapore. Adesso sono qui, una delle tante notti prima dell’esame. Se faccio questo son “solo” tredici. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe se avessi scritto allora, nell’estate più calda del secolo. Una vendemmia di sapori, un tripudio di cronaca, un racconto che esce dalla carta. Mi sono sempre chiesto, sulla pelle, se avessi scritto allora a caldo, turgido di quel turbine di emozioni terricole e fiumane, che sarebbe successo: avrei ora un foglio vivo (?) con il vero sentimento di allora, tra sole e nostalgia, con tanti elementi nuovi, veri, su cui spanciarsi e ricordare. Ora scrivo sull’onda dei ricordi. Sì, sono sinceri. Però è tutto mediato dai ricordi che sono rimasti, che rimesto. E se qualcosa fosse già sottoterra? E se allora avessi usato, con ingenuità, parole più croccanti, più evocative, più parmigiane di queste? Se avessi in fondo a un cassetto, tra la cianfrusaglia, quella foto calda, focosa, surreale: la ruota che gira, la macchina infilzata nel fosso, la strada bianca che fa una curva in mezzo al Texas. No, non si può fermare il cuore che batte. Non si può fermare Soragna, Diolo, Ragazzola, Stagno. Forse. E quel trattore. La striscia in terra. Gli occhiali di vetro verde. Nico. Chi fermerà la musica di quei consumati cd, che tornano quando mollano le corde dell’anima? E’ stata un’epopea. Ero partito, con tutto me stesso. Così, una sera di luglio, il 4. Ce l’avevo dentro da anni, in fondo. Era la barca di Odisseo, lo penso ancora oggi, se penso all’intensità di quei cd, chissà dove sono ora, in qualche buio e polveroso scatolone, da qualche amico, da Nico, da Mario, da Ste, da Leti? Il vento è cambiato. La bufera di Berlino è lontana. E’ tornato Giulio, in quella notte contro la Germania. E’ tornata anche Leti, forse, proprio ieri sera. Roccabianca naufraga negli oceani fondi della memoria, si confonde con l’oblio. Ma ho ventidue anni, una penna, e un sogno. Tornare. Sentire. Scrivere. Vivere. Se in silenzio, sottovoce, mi prendon per mano per un’altra epopea, più lunga, tra gli angoli i tempi e i volti di questo grande sasso, annaffierò tutto con quel ricordo senza pari, una brocca d’inchiostro e un tassìn de rus quel bòn.
E se torni però no vüna, ma quater en lung e in largh fem il gir del mund.
E se non torni, sappi che con te ho sentito, forte.
Di fronte all’Agip hanno costruito una rotonda. L’asfalto è ancora adrenalinico. Là in fondo, insomma, Roccabianca c’è ancora. Si è fatta trovare. Dopo Castelnuovo, il gelato, quella bella piazzetta, i mattoni, i pomodori, i casali e i cartelli con il profumo del formaggio che sa di vacca.
Ma il cielo è sempre più blu…
Non c’è più il bar. Lì, in borgo Bixio, dove il campanile ha le radici ingramignate nella terra d’argine, è stato sbaraccato tutto. E’ stato sgusciato il bar, con le sue intimità, il suo caldo legno, le sue nebbie e le bibite paesane. Con il suo vino sincero e il suo dolce culatello. Con la signora dal grembiule sporco, i vecchi intarsiati con la erre di queste terre, e il te caldo da portar via. Le foto in bianco e nero, le tovaglie unte, il caffé all’alba e le brioche che insomma non sono buone ma che bello fermarsi a mangiarle con un amico.
«Qui finisce tutto a Roccabianca», dice un vecchio di Benevento, trapiantato sulla destra del Po, dove la piana cremonese invade il contado di Fidenza. «In verità un bar c’è ancora». Sì ma è diverso. E’ in piazza. Ci sono i giovani truzzi con le Seat nere. E’ spento. E qualche cinquantenne con la pancia e l’anello d’oro finto, che parlano di come andare in pensione. Roccabianca, quella vera, è anche questo. Gli archi però sono epici, bassaioli. Qualche canottiera bianca occhieggia ancora dietro le finestre, poche. Come ogni paese di bassa, questi sogno gli anni sventrati; via la storia, ecco le immobiliari. Anche la trattoria ha chiuso i battenti, per non riaprirli forse più. Ma il cielo è sempre più blu. Non tutto va via con un piano regolatore, con un mappale, con una bastarda delibera. I borghi bassaioli sanno essere cocciuti. E quel mattone sberciato, che sbriciola argilla bruna, dove cresce un filo d’erba secca, ti colpisce ancora e ti porta ruzzolando indietro.
Lì però la strada, l’incrocio, è ancora quello che ho disegnato nelle budella. La liberazione di andare ovunque, comunque: a volte mi torna, quella sensazione (per converso, s’intende) di parcheggiare la 206 ricoperta di fango padano lì tra la statua, la rocca, il bar sport e la vigilessa con il cappello bianco e lo stemma giallo e blu. Diciotto anni. Estate 2003, 26 luglio. L’aria, la musica, il vento negli occhi, sull’argine. Far benzina con dieci euro consunti e buttarsi su quell’argine verso il ponte, col cielo rosato, la sera, la mattina dopo. La poesia della tenebra, la paura del lupo, il gelo in macchina. E poi il rally nel bosco, dove ho preso la patente. E sempre allegri bisogna stare. Liberi di tutto, da tutto, liberi di far quel che ci piace, senza limiti. Un atlante del 1981. Sentire il motore, schiacciare l’acceleratore, vedere la terra sui finestrini, scrutare una cartina e arrivare fino in fondo. Con la bici avevo iniziato a sedici anni (a quattro?), un motorino non l’ho mai avuto, ma ora con la macchina, con la 206 è così, speciale. I Blink, quella curva venuta alla fine, era come se fossimo lì da sempre. Dovevamo andare a Venezia. Le puce della pioggia sul vialone; era un estero, a suo modo, Roccabianca. Puciarsi poi scrivere. E’ lì che è venuta su questa idea. Che è risorta dal 1989.
Cazzo che bello. E scendere a piedi nudi, la pelle sull’asfalto, le ciabatte disperse, i pantaloncini gialli, l’umido della notte sulla pelle, la cedrata calda e sgasata, la sabbia nei capelli, il formaggio nelle corde, e toccare con mano quel fango a ventaglio e sentire caldo e bruciaticchio di gomma. E il cofano sempre più blu. Sono le sei e venti del mattino, o giù di lì.
Non ho mai scritto di Roccabianca a caldo. Non ne ho mai fermato il sapore. Adesso sono qui, una delle tante notti prima dell’esame. Se faccio questo son “solo” tredici. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe se avessi scritto allora, nell’estate più calda del secolo. Una vendemmia di sapori, un tripudio di cronaca, un racconto che esce dalla carta. Mi sono sempre chiesto, sulla pelle, se avessi scritto allora a caldo, turgido di quel turbine di emozioni terricole e fiumane, che sarebbe successo: avrei ora un foglio vivo (?) con il vero sentimento di allora, tra sole e nostalgia, con tanti elementi nuovi, veri, su cui spanciarsi e ricordare. Ora scrivo sull’onda dei ricordi. Sì, sono sinceri. Però è tutto mediato dai ricordi che sono rimasti, che rimesto. E se qualcosa fosse già sottoterra? E se allora avessi usato, con ingenuità, parole più croccanti, più evocative, più parmigiane di queste? Se avessi in fondo a un cassetto, tra la cianfrusaglia, quella foto calda, focosa, surreale: la ruota che gira, la macchina infilzata nel fosso, la strada bianca che fa una curva in mezzo al Texas. No, non si può fermare il cuore che batte. Non si può fermare Soragna, Diolo, Ragazzola, Stagno. Forse. E quel trattore. La striscia in terra. Gli occhiali di vetro verde. Nico. Chi fermerà la musica di quei consumati cd, che tornano quando mollano le corde dell’anima? E’ stata un’epopea. Ero partito, con tutto me stesso. Così, una sera di luglio, il 4. Ce l’avevo dentro da anni, in fondo. Era la barca di Odisseo, lo penso ancora oggi, se penso all’intensità di quei cd, chissà dove sono ora, in qualche buio e polveroso scatolone, da qualche amico, da Nico, da Mario, da Ste, da Leti? Il vento è cambiato. La bufera di Berlino è lontana. E’ tornato Giulio, in quella notte contro la Germania. E’ tornata anche Leti, forse, proprio ieri sera. Roccabianca naufraga negli oceani fondi della memoria, si confonde con l’oblio. Ma ho ventidue anni, una penna, e un sogno. Tornare. Sentire. Scrivere. Vivere. Se in silenzio, sottovoce, mi prendon per mano per un’altra epopea, più lunga, tra gli angoli i tempi e i volti di questo grande sasso, annaffierò tutto con quel ricordo senza pari, una brocca d’inchiostro e un tassìn de rus quel bòn.
E se torni però no vüna, ma quater en lung e in largh fem il gir del mund.
E se non torni, sappi che con te ho sentito, forte.
8 commenti:
trooooooppo lunga.
hai ragione
Il vostro problema è che ormai siste endemici alla società tecnologica, dove tutto fluisce così velocemente che non riuscite più a concedervi un attimo di pausa per legegre. siete lettori di agenzie ansa, di riassunti sterili. un blog vuole essere anche uno spazio per riflessioni un po' più lente, non solo per notizie usa e getta.
caro corbegliano laudense della muzza che puzza: sei più permaloso di un elefante rosa! Non ti si può dire alcunché che ti inalberi subito.
caro peperone nel culo,
non mi sono inalberato: ho solo risposto ai vostri commenti.
caro cornegliano laudense della muzza che puzza, quando non sai più cosa dire la butti in vacca un pò come il tuo idolo giornalistico Cesare Pompilio (di Eva3000, il tuo mensile preferiti) su TL o A3
COBBOLLI GILLLI!!!!!
pepe, io non so chi sia questo pompillo. però mi piace assai il suo cognome...
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